Ave Maria

Vergine“Ave Maria” è una bella e dolce canzone di Fabrizio De Andrè, contenuta nell’album “La buona novella” del 1970. Il brano racconta la maternità di Maria, il dolore e la gioia per questo momento. E di come madri si sia per sempre.

E te ne vai, Maria, fra l’altra gente
che si raccoglie intorno al tuo passare,
siepe di sguardi che non fanno male
nella stagione di essere madre.

Sai che fra un’ora forse piangerai
poi la tua mano nasconderà un sorriso:
gioia e dolore hanno il confine incerto
nella stagione che illumina il viso.

Ave Maria, adesso che sei donna,
ave alle donne come te, Maria,
femmine un giorno per un nuovo amore
povero o ricco, umile o Messia.

Femmine un giorno e poi madri per sempre
nella stagione che stagioni non sente.

La canzone di Marinella

Fabrizio De Andrè“La canzone di Marinella” è una bella canzone di Fabrizio De Andrè del 1965. Il brano racconta di una ragazza che, dopo aver conosciuto il grande amore, muore in un fiume. Nonostante il tono fiabesco, la storia raccontata prende ispirazione da un fatto reale di cronaca: una ragazza di 16 anni, costretta a prostituirsi, viene uccisa e gettata in un fiume. Non potendo ridarle la vita, De Andrè le ha cambiato la morte.

Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera,
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella.

Sola, senza il ricordo di un dolore,
vivevi senza il sogno di un amore
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla sua porta.

Bianco come la luna il suo cappello,
come l’amore rosso il suo mantello ,
tu lo seguisti senza una ragione,
come un ragazzo segue un aquilone.

E c’era il sole e avevi gli occhi belli,
lui ti baciò le labbra ed i capelli.
C’era la luna e avevi gli occhi stanchi,
lui pose la mano sui tuoi fianchi.

Furono baci, furono sorrisi,
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle.

Dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent’anni ancora alla tua porta.

Questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose.

E come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno come le rose.

Dolcenera

Dolcenera“Dolcenera” è una bellissima canzone di Fabrizio De Andrè del 1996. Il brano, contenuto nell’album “Anime salve” racconta di un uomo che aspetta la sua amata, una donna sposata, che però non arriva perché rimane bloccata dal diluvio che ha colpito Genova nel 1972. Ma il suo amore è così forte da diventare la follia che gli fa dimenticare la sua assenza fino a fargli sentire la presenza fisica di lei.

Amiala ch’a l’arìa amia cum’a l’é cum’à l’é.
Amiala ch’a l’arìa amìa ch’a l’é le ch’a l’é le.
Amiala cum’a l’aria amia amia cum’a l’é.
Amiala ch’a l’arìa amìa ch’a l’é le.

Nera che porta via, che porta via la via.
Nera che non si vedeva da una vita intera, così dolcenera nera.
Nera che picchia forte, che butta giù le porte.

E ch’a l’é le nu l’é l’aegua ch’a fa baggià imbaggià imbaggià.

Nera di malasorte che ammazza e passa oltre.
Nera come la sfortuna che si fa la tana dove non c’è luna,
luna nera di falde amare, che passano le bare

Atru da stramuà a nu n’à a nu n’à.

Ma la moglie di Anselmo non lo deve sapere
che è venuta per me è arrivata da un’ora
e l’amore ha l’amore come solo argomento
e il tumulto del cielo ha sbagliato momento.

Acqua che non si aspetta altro che benedetta,
acqua che porta male sale dalle scale, sale senza sale, sale
acqua che spacca il monte che affonda terra e ponte.

Nu l’è l’aegua de ‘na rammà ‘n calabà ‘n calabà.

Ma la moglie di Anselmo sta sognando del mare,
quando ingorga gli anfratti si ritira e risale,
e il lenzuolo si gonfia sul cavo dell’onda
e la lotta si fa scivolosa e profonda.

Amiala cum’a l’arìa amìa cum’a l’é cum’a l’é.
Amiala cum’a l’arìa amìa ch’a l’è le ch’a l’é le.

Acqua di spilli fitti dal cielo e dai soffitti,
acqua per fotografie per cercare i complici da maledire,
acqua che stringe i fianchi tonnara di passanti.

atru da camallà a nu n’à a nu n’à

Oltre il muro dei vetri si risveglia la vita
che si prende per mano a battaglia finita,
come fa questo amore, che dall’ansia di perdersi,
ha avuto in un giorno la certezza di aversi,

Acqua che ha fatto sera, che adesso si ritira,
bassa sfila tra la gente come un innocente che non c’entra niente,
fredda come un dolore Dolcenera senza cuore.

Atru da rebellà a nu n’à a nu n’à.

E la moglie di Anselmo sente l’acqua che scende
dai vestiti incollati da ogni gelo di pelle,
nel suo tram scollegato da ogni distanza,
nel bel mezzo del tempo che adesso le avanza.
Così fu quell’amore dal mancato finale,
così splendido e vero da potervi ingannare.

Amiala ch’a l’arìa amia cum’a l’é cum’à l’é.
Amiala ch’a l’arìa amìa ch’a l’é le ch’a l’é le.
Amiala cum’a l’aria amia amia cum’a l’é.
Amiala ch’a l’arìa amìa ch’a l’é le ch’a l’é le.

Ballata dell’Amore Cieco o della Vanità

Regina di cuori“Ballata dell’Amore Cieco o della Vanità” è una stupenda canzone di Fabrizio De Andrè, tratta dal disco “Canzoni” del 1974. Il brano racconta di un giovane innamorato e di una donna spietata che gli chiede delle terribili prove d’amore, fino a portarlo alla morte. Ma la vanità di lei diventa terrore quando vede che il giovane muore felice.

Un uomo onesto, un uomo probo,
tralalalalla tralallalero
s’innamorò perdutamente
d’una che non lo amava niente.

Gli disse portami domani,
tralalalalla tralallalero
gli disse portami domani
il cuore di tua madre per i miei cani.

Lui dalla madre andò e l’uccise,
tralalalalla tralallalero
dal petto il cuore le strappò
e dal suo amore ritornò.

Non era il cuore, non era il cuore,
tralalalalla tralallalero
non le bastava quell’orrore,
voleva un’altra prova del suo cieco amore.

Gli disse amor se mi vuoi bene,
tralalalalla tralallalero
gli disse amor se mi vuoi bene,
tagliati dei polsi le quattro vene.

Le vene ai polsi lui si tagliò,
tralalalalla tralallalero
e come il sangue ne sgorgò,
correndo come un pazzo da lei tornò.

Gli disse lei ridendo forte,
tralalalalla tralallalero
gli disse lei ridendo forte,
l’ultima tua prova sarà la morte.

E mentre il sangue lento usciva,
e ormai cambiava il suo colore,
la vanità fredda gioiva,
un uomo s’era ucciso per il suo amore.

Fuori soffiava dolce il vento
tralalalalla tralallalero
ma lei fu presa da sgomento,
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato,
quando a lei niente era restato,
non il suo amore, non il suo bene,
ma solo il sangue secco delle sue vene.

Il testamento di Tito

Cristo e il Buon Ladrone (di Tiziano)“Il testamento di Tito” è una meravigliosa canzone di Fabrizio De Andrè, uscita nel 1970. Il brano è il monologo che il ladrone Tito fa sulla croce, vicino a Gesù. Tito denuncia l’ipocrisia di quelle persone che credono di seguire gli insegnamenti della religione.  Allo stesso tempo, però, viene colpito da quell’uomo innocente, Gesù, che viene ucciso eppure non cede al dolore. E attraverso questa pietà Tito scopre l’amore.

Non avrai altro Dio all’infuori di me,
spesso mi ha fatto pensare:
genti diverse venute dall’est
dicevan che in fondo era uguale.

Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.
Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.

Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano.
Con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:

ma forse era stanco, forse troppo occupato,
e non ascoltò il mio dolore.
Ma forse era stanco, forse troppo lontano,
davvero lo nominai invano.

Onora il padre, onora la madre
e onora anche il loro bastone,
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone:

quando a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore.
Quanto a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore.

Ricorda di santificare le feste.
Facile per noi ladroni
entrare nei templi che riguargitan salmi
di schiavi e dei loro padroni

senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.
Senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.

Il quinto dice non devi rubare
e forse io l’ho rispettato
vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato:

ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.
Ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.

Non commettere atti che non siano puri
cioè non disperdere il seme.
Feconda una donna ogni volta che l’ami
così sarai uomo di fede:

Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
e tanti ne uccide la fame.
Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore:
ma non ho creato dolore.

Il settimo dice non ammazzare
se del cielo vuoi essere degno.
Guardatela oggi, questa legge di Dio,
tre volte inchiodata nel legno:

guardate la fine di quel nazzareno
e un ladro non muore di meno.
Guardate la fine di quel nazzareno
e un ladro non muore di meno.

Non dire falsa testimonianza
e aiutali a uccidere un uomo.
Lo sanno a memoria il diritto divino,
e scordano sempre il perdono:

ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.

Non desiderare la roba degli altri
non desiderarne la sposa.
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
che hanno una donna e qualcosa:

nei letti degli altri già caldi d’amore
non ho provato dolore.
L’invidia di ieri non è già finita:
stasera vi invidio la vita.

Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:

io nel vedere quest’uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l’amore.