Il terremoto di Messina (1908)

L’egiziano Hâfiz Ibrâhîm, il “poeta del Nilo”, è nato nel 1872 e morto nel 1932. Ha scritto una bella e toccante poesia (qui tradotta in italiano) sul terremoto di Messina, un evento terribile di immense proporzioni (7,2 gradi, più di 100.000 morti, in gran parte a causa dello tsunami che si è scatenato subito dopo).

Ditemi o stelle, se lo sapete, cosa sta succedendo all’universo:
è l’ira divina o una congiura della terra per castigare l’uomo?
Dio mi perdoni, non è l’una né l’altra, ma la natura stessa delle cose:
nel ventre della terra c’è un tumulto
che ne sprigiona e sconvolge il mare ed il vulcano.
O Signore, qual è lo scampo se mare e terra congiurano contro l’uomo?
Temevo i mari, poiché la morte vi attendeva anche una minima distrazione del capitano:
eccola insinuarsi sotto di noi, sovrastarci, avvolgerci, ora più prossima ora più lontana.
Dunque la terra e il mare hanno per sorte entrambi di tradirci.
Cos’è successo a Messina, doppiamente uccisa nel fiore della sua gioventù?
Le sue incomparabili bellezze sono venute meno all’avvento delle due calamità.
In un attimo è stata risucchiata dal suolo e ricoperta dalle acque,
la sua beltà è perita d’un tratto e si è compiuto il suo fato.
Magari le avessero concesso il tempo almeno di congedarsi dagli amici e dai vicini,
lasciando ai compagni la gioia di incontrarsi, agli amanti di riunirsi.
Terra e monti hanno prevaricato su di essa
e con quale prepotenza l’ha fatto il mare!
Il suolo scoppia di rancore contro di lei
e si spacca da tanto ne ribolle.
Le montagne rispondono lanciando pietre, lapilli e fumo,
i mari a loro volta ingaggiano eserciti di onde tumultuose.
La morte assume diversi colori: qui nero fitto, là rosso vermiglio.
Ha reclutato acque e terra per distruggere tutti e si è fatta aiutare dalle fiamme.
Ha convocato anche nubi possenti che la provvedono di una schiera di fulmini.
Fuggire è impossibile, regna la disperazione e svanisce il coraggio dei valorosi.
La morte si è vendicata di quelle anime che l’avrebbero sprezzata,
se l’avessero affrontata in battaglia.
E dov’è Reggio, dove i suoi bei palazzi, le sue donne avvenenti?
In modo simile alla sorella è stata colpita all’improvviso,
con lei è stata colta dalle stesse catastrofi.
Forse un bambino è stato inghiottito nel ventre della terra
invocando l’aiuto della madre e del padre,
una fanciulla divorata dalle fiamme, straziata dalle ustioni,
un padre sconvolto è andato indomito verso il fuoco,
le braccia tese, cercando figlie e figli,
il passo lesto, l’animo turbato,
divorato dal fuoco da cui non si è sottratto e non gli ha dato tregua.
La terra si è ingozzata ed anche il mare è sazio
da tante sono le vittime che hanno ingoiato.
La balena ha lanciato un lamento ai falchi
che allo stesso modo hanno risposto:
l’una e gli altri si sono accaniti sui corpi
ed ora, satolli, gemono per quel feroce pasto.
Dio maledica i predatori delle vette e dell’abisso
che han divorato nobili mani, create da Dio per operare meraviglie.
Come han potuto non provarne pena,
aver riguardo per simili dita?
Che immane perdita! Eran mani di artisti imperituri,
bramose di far propria ogni bellezza,
capaci di ammaliare coi colori,
di scolpire, dipingere, edificare meraviglie,
di far parlare pietre e zittire così anche il canto degli uccelli,
tese, nel fare, a una perfezione maggiore di quella che ha il poeta nel dire,
in grado di produrre sculture lucenti come stelle
la cui bellezza il tempo non può offuscare.
Oh arte prodigiosa,
oh potenza divina ancor più grande!
Ahi, Messina, oggi ti affianchi a Pompei ch’era rimasta sola,
vai a tenere compagnia al gioiello della corona romana,
assassinata mentre era ancora intenta al diletto.
La sorte è sopraggiunta mentre la gente doviziosa era nei ritrovi al suono della musica: amanti appassionati, gaudenti spensierati, giocatori incalliti…
Son tutti morti, così come lo sono or ora i tuoi
ed il sorriso della vita si è offuscato.
Ma tu, Messina, non scomparirai nel nulla dell’oblio come a lei è occorso,
coloro che hanno edificato l’Italia son grandi costruttori,
finché sussisterà almeno uno di loro, puoi star tranquilla.
Sia pace a te nel giorno in cui sei venuta meno con la tua bellezza,
sia pace a te quando ritornerai ad essere come un tempo il paradiso d’Italia.
Un saluto da ogni essere umano della terra
per ognuno di coloro che sono scomparsi,
di coloro che il lupo ha divorato e i falchi hanno straziato,
un saluto per ciascuno di quelli che hanno versato una lacrima
e un’offerta per ricostruirti,
non elemosina ma giusto tributo di ogni uomo verso il suo simile.
Scrivete del cielo di Reggio, di Messina, della Calabria, in ogni lingua:
qui è morta ogni impresa, ogni immagine è sbiadita,
si è spento ogni pensiero, ha taciuto ogni canto.

Hâfiz Ibrâhîm





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