Telefonami tra vent’anni

“Telefonami tra vent’anni” è una bella canzone di Lucio Dalla, del 1981. Il brano racconta una storia particolare di due innamorati che si separano. L’invito a chiamarsi vent’anni dopo è un invito a prendere le distanze e al tempo stesso non dimenticarsi.

Lucio Dalla

Telefonami tra vent’anni,
io adesso non so cosa dirti.
Amore, non so risponderti
e non ho voglia di capirti.
Invece pensami tra vent’anni, pensami,
io con la barba più bianca
e una valigia in mano,
con la bici da corsa
e gli occhiali da sole,
fermo in qualsiasi posto del mondo.
Chi sa dove?
Tra miliardi, miliardi di persone
a bocca aperta, senza parole,
nel vedere una mongolfiera
che si alza piano piano
e cancella dalla memoria
tutto quanto il passato,
anche linee della mano,
mentre dall’alto un suono,
come un suono prolungato,
il pensiero che è appena nato
si avvicina e scende giù.
Ah, io sarei uno stronzo,
quello che guarda troppo la televisione!
Beh, qualche volta lo sono stato,
l’importante è avere in mano la situazione.
Non ti preoccupare,
di tempo per cambiare ce n’è.
Così ripensami tra vent’anni, ripensami,
vestito da torero,
una torta in mano,
l’orecchio puntato verso il cielo,
verso quel suono lontano, lontano…
ma ecco che si avvicina
con un salto: siamo nel duemila,
alle porte dell’universo!
L’importante è non arrivarci in fila,
ma tutti quanti in modo diverso,
ognuno con i suoi mezzi,
magari arrivando a pezzi
su una vecchia bicicletta da corsa,
con gli occhiali da sole,
il cuore nella borsa.
Impara il numero a memoria,
poi riscrivilo sulla pelle,
se telefoni tra vent’anni
butta i numeri fra le stelle,
alle porte dell’universo
un telefono suona ogni sera,
sotto un cielo di tutte le stelle
di un’inquietante primavera.

Quale allegria

“Quale allegria” è una canzone di Lucio Dalla contenuta nell’album “Come è profondo il mare”, del 1977. In questa canzone l’autore dice come la sua allegria sia solo apparente, perché nasconde una vita senza un amore vero e senza emozioni profonde. Senza allegria, appunto.

Allegria

Quale allegria?
Se ti ho cercato per una vita senza trovarti,
senza nemmeno avere la soddisfazione di averti
per vederti andare via.
Quale allegria?!

Quale allegria?
Se non riesco neanche più a immaginarti,
senza sapere se volare, se strisciare,
insomma, non so più dove cercarti.
Quale allegria?

Quale allegria?
Senza far finta di dormire,
con la tua guancia sulla mia.
Saper invece che domani “ciao, come stai”
una pacca sulla spalla e via…
Quale allegria?

Quale allegria?
Cambiar faccia cento volte
per far finta di essere un bambino.
Di essere un bambino
con un sorriso ospitale, ridere, cantare, far casino,
insomma, far finta che sia sempre un carnevale…
Sempre un carnevale.

Senza allegria
uscire presto la mattina,
la testa piena di pensieri,
scansare macchine, giornali,
tornare in fretta a casa,
tanto oggi è come ieri.

Senza allegria
anche sui treni e gli aeroplani
o sopra un palco illuminato
fare un inchino a quelli che ti son davanti
e son in tanti e ti battono le mani.

Senza allegria
a letto insieme senza pace,
senza più niente da inventare.
Esser costretti a farsi anche del male
per potersi con dolcezza perdonare
e continuare.

Con allegria
far finta che in fondo in tutto il mondo
c’è gente con gli stessi tuoi problemi
e poi fondare un circolo serale
per pazzi sprassolati e un poco scemi.

Facendo finta che la gara sia
arrivare in salute al gran finale.
Mentre è già pronto Andrea
con un bastone e cento denti
che ti chiede di pagare

per i suoi pasti mal mangiati,
i sonni derubati i furti obbligati
per essere stato ucciso
quindici volte in fondo a un viale,
per quindici anni la sera di Natale…

Cara

Lucio Dalla“Cara” è una bellissima canzone di Lucio Dalla del 1980. Il brano è una dolce lettera d’amore e il titolo originale avrebbe dovuto essere “Dialettica dell’immaginario”. La canzone è una malinconica riflessione di un innamorato che pensa alla sua amata che lui sente ormai lontana.

Cosa ho davanti, non riesco più a parlare,
dimmi cosa ti piace, non riesco a capire: dove vorresti andare?
vuoi andare a dormire.
Quanti capelli che hai, non si riesce a contare,
sposta la bottiglia e lasciami guardare,
se di tanti capelli ci si può fidare.

Conosco un posto nel mio cuore
dove tira sempre il vento,
per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento
non c’è niente da capire, basta sedersi ed ascoltare.
Perché ho scritto una canzone per ogni pentimento
e debbo stare attento a non cadere nel vino
o finir dentro ai tuoi occhi, se mi vieni più vicino.

La notte ha il suo profumo e puoi cascarci dentro
che non ti vede nessuno
ma per uno come me, poveretto, che voleva prenderti per mano
e cascare dentro un letto…
che pena! Che nostalgia,
non guardarti negli occhi e dirti un’altra bugia.
Almeno non ti avessi incontrato!
Io che qui sto morendo e tu che mangi il gelato.

Tu corri dietro al vento e sembri una farfalla
e con quanto sentimento ti blocchi e guardi la mia spalla,
se hai paura a andar lontano, puoi volarmi nella mano,
ma so già cosa pensi, tu vorresti partire
come se andare lontano fosse uguale a morire
e non c’è niente di strano ma non posso venire.

Così come una farfalla ti sei alzata per scappare
ma ricorda che a quel muro ti avrei potuta inchiodare,
se non fossi uscito fuori per provare anch’io a volare
e la notte cominciava a gelare la mia pelle,
una notte madre che cercava di contare le sue stelle
io lì sotto ero uno sputo e ho detto: “olè, sono perduto!”.

La notte sta morendo
ed è cretino cercare di fermare le lacrime ridendo,
ma per uno come me, l’ho gia detto,
che voleva prenderti per mano e volare sopra un tetto…

Lontano si ferma un treno,
ma che bella mattina! Il cielo è sereno.
Buonanotte, anima mia,
adesso spengo la luce e così sia.

4 marzo 1943

4 marzo 1943, anche se non è una canzone autobiografica, è la data di nascita di Lucio Dalla e il titolo di un suo brano molto toccante del 1971. Il titolo è frutto di una scelta di ripiego: la Rai – come al solito – aveva censurato titolo originale (Gesù Bambino) e parte del testo, fraintendendo completamente il senso della canzone. Che parla di una ragazza che rimane incinta di un soldato americano durante la guerra (caso molto frequente tra 1943 e 1945, molto spesso per violenza sessuale) e che, malgrado le difficoltà, porta avanti la gravidanza fino alla nascita dell’amato figlio. Il testo è scritto dalla storica dell’arte Paola Pallottino, figlia di Massimo, principale studioso degli Etruschi di sempre.

Dice che era un bell’uomo e veniva
veniva dal mare
parlava un’altra lingua
però sapeva amare
e quel giorno lui prese a mia madre
sopra un bel prato
l’ora più dolce
prima di essere ammazzato.

Così lei restò sola nella stanza
la stanza sul porto
con l’unico vestito ogni giorno più corto
e benché non sapesse il nome
e neppure il paese
mi aspettò come un dono d’amore
fin dal primo mese.

Compiva sedici anni quel giorno la mia mamma
le strofe di taverna le cantò a ninna nanna
e stringendomi al petto che sapeva
sapeva di mare
giocava a fare la donna con il bimbo da fasciare.

E forse fu per gioco o forse per amore
che mi volle chiamare come nostro Signore
della sua breve vita è il ricordo più grosso
è tutto in questo nome
che io mi porto addosso.

E ancora adesso che gioco a carte e bevo vino
per la gente del porto
mi chiamo Gesù bambino
e ancora adesso che gioco a carte e bevo vino
per la gente del porto
mi chiamo Gesù bambino
e ancora adesso che gioco a carte e bevo vino
per la gente del porto
mi chiamo Gesù Bambino…

Piazza Grande

Piazza Grande (1971) è una splendida canzone di Lucio Dalla. E’ dedicata a un senzatetto che vive in Piazza Maggiore a Bologna (la città che Dalla ha sempre amato): non ha niente e nessuno, ma la piazza lo fa sentire come a casa sua. Non è solo un omaggio a chi è più sfortunato di noi, ma è anche un inno a un luogo caratteristico delle città italiane: la piazza, come centro di scambi, incontri, confronti, dove si sviluppa una vita autenticamente comunitaria, anche nelle città più grandi. Tanto che perfino un senzatetto si può sentire a suo agio in una piazza italiana. La dimensione sociologica di questo brano ha indotto il Ministero della Pubblica Istruzione a inserirlo come testo di studio nell’esame di maturità del 2001.

Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è
sulle panchine in Piazza Grande,
ma quando ho fame di briganti come me qui non ce n’è.

Dormo sull’erba e ho molti amici intorno a me,
gli innamorati in Piazza Grande,
dei loro guai dei loro amori tutto so, sbagliati e no.

A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io.
A modo mio avrei bisogno di sognare anch’io.

Una famiglia vera e propria non ce l’ho
e la mia casa è Piazza Grande,
a chi mi crede prendo amore e amore do, quanto ne ho.

Con me di donne generose non ce n’è,
rubo l’amore in Piazza Grande,
e meno male che briganti come me qui non ce n’è.

A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io.
Avrei bisogno di pregare Dio.
Ma la mia vita non la cambierò mai mai,
a modo mio quel che sono l’ho voluto io

Lenzuola bianche per coprirci non ne ho
sotto le stelle in Piazza Grande,
e se la vita non ha sogni io li ho e te li do.

E se non ci sarà più gente come me
voglio morire in Piazza Grande,
tra i gatti che non han padrone come me attorno a me.