L’uccello dai mille colori

Uccello coloratoUn altro uccello avrebbe capito. Il falco avrebbe capito: sarebbe sceso limpido e netto, lo avrebbe afferrato in un soffio e lo avrebbe portato via, senza pena e senza rimpianti. Ma il bimbo non poteva capire. Per lui quella era una creatura dai mille colori, morbida e piumata, tenera e gentile, che avrebbe dovuto riempire il mondo di grida, volare alto come il sole e gettarsi in picchiata, giocare con i venti e le nubi, con la pioggia e con il lampo. E invece non si muoveva: stava accovacciata in un angolo di quell’ampio balcone e guardava fisso davanti a sé, immobile e quieta.
Un altro uccello avrebbe notato che i colori non erano più lucenti, le piume non più morbide come una volta, il corpo non più agile e scattante, le ali non più in grado di resistere al vento. Ma il bimbo non aveva mai visto una creatura con tanti colori, una creatura alata, così da vicino. Pensò che l’uccello fosse triste e solo, e che per questo non cantava e volava, non riempiva il mondo di grida, non volava alto come il sole. Cercò di fargli compagnia.
Lo prese in mano, gli cantò una canzone, lo portò nella sua camera, gli mostrò i suoi tesori. Andò a cercare dei grani e dell’acqua per preparargli un bel pranzo. Ma l’uccello non mangiò e non bevve.
Il bimbo pensò che fosse stanco. Lo poggiò sul davanzale, dove si vedevano il sole e le nubi, e cominciò a costruirgli una gabbietta. Era un bimbo industrioso: aveva pezzo di legno leggero, e viti e chiodi e bulloni. Aveva anche un martello. Lavorò per ore, con gran diligenza.
Quando la gabbietta fu finita, il sole era calato e l’uccello aveva chiuso gli occhi. Il bimbo ancora si chiede in che cosa ha sbagliato.

tratto da La filosofia in trentadue favole, di Ermanno Bencivenga

Io

Ermanno Bencivenga è un professore di filosofia. Nel 1991 scrive un libro che si chiama “La filosofia in trentadue favole” in cui prova a trattare alcuni temi filosofici attraverso delle narrazioni che ricordano le favole dell’infanzia. 

Soggetto

C’era una volta io, ma non andava bene. Mi capitava di incontrare gente per strada e di scambiarci due parole, e per un po’ la conversazione era simpatica e calorosa, ma arrivava sempre il momento in cui mi si chiedeva “Chi sei?” e io rispondevo “Sono io”, e non andava bene. Era vero, perchè io sono io, è la cosa che sono di più, e se devo dire chi sono non riesco a pensare a niente di meglio. Eppure non andava bene lo stesso: l’altro faceva uno sguardo imbarazzato e si alontanava il più presto possibile. Oppure chiamavo qualcuno al telefono e gli dicevo “Sono io”, ed era vero, e non c’era un modo migliore, più completo, più giusto di dirgli chi ero, ma l’altro imprecava o si metteva a ridere e poi riagganciava.
Così mi sono dovuto adattare. Prima di tutto mi sono dato un nome, e se adesso mi si chiede chi sono rispondo: “Giovanni Spadoni”. Non è un granchè, come risposta: se mi si chiedesse chi è Giovanni Spadoni probabilmente direi che sono io. Ma, chissà perché, dire che sono Giovanni Spadoni funziona meglio. Funziona tanto bene che nessuno mai mi chiede chi è Giovanni Spadoni: si comportano tutti come se lo sapessero.
Invece di chiedermi chi è Giovanni Spadoni gli altri mi chiedono dove e quando sono nato, dove abito, chi erano mio padre e mia madre. Io gli rispondo e loro sono contenti. E forse sono contenti perché credono che io sia quello che è nato nel posto tale e abita nel posto talaltro, e che è figlio di Tizio e di Caia e padre di questo e di quello. Il che non è vero, ovviamente: non c’è niente di speciale nel posto tale o talaltro, o in Tizio e Caia. Se fossi nato altrove, in un’altra famiglia, sarei ancora lo stesso, sarei sempre io: è questa la cosa che sono di più, la cosa più vera e più giusta che sono. Ma questa cosa non interessa a nessuno: gli interessa dell’altro, e quando lo sanno sono contenti.
Una volta c’ero io, e non andava bene. Adesso c’è Giovanni Spadoni, che è nato a X e vive a Y e così via. E io non sono niente di tutto questo. Ma le cose vanno benissimo.

tratto da La filosofia in trentadue favole, Ermanno Bencivenga