L’uccello dai mille colori

Uccello coloratoUn altro uccello avrebbe capito. Il falco avrebbe capito: sarebbe sceso limpido e netto, lo avrebbe afferrato in un soffio e lo avrebbe portato via, senza pena e senza rimpianti. Ma il bimbo non poteva capire. Per lui quella era una creatura dai mille colori, morbida e piumata, tenera e gentile, che avrebbe dovuto riempire il mondo di grida, volare alto come il sole e gettarsi in picchiata, giocare con i venti e le nubi, con la pioggia e con il lampo. E invece non si muoveva: stava accovacciata in un angolo di quell’ampio balcone e guardava fisso davanti a sé, immobile e quieta.
Un altro uccello avrebbe notato che i colori non erano più lucenti, le piume non più morbide come una volta, il corpo non più agile e scattante, le ali non più in grado di resistere al vento. Ma il bimbo non aveva mai visto una creatura con tanti colori, una creatura alata, così da vicino. Pensò che l’uccello fosse triste e solo, e che per questo non cantava e volava, non riempiva il mondo di grida, non volava alto come il sole. Cercò di fargli compagnia.
Lo prese in mano, gli cantò una canzone, lo portò nella sua camera, gli mostrò i suoi tesori. Andò a cercare dei grani e dell’acqua per preparargli un bel pranzo. Ma l’uccello non mangiò e non bevve.
Il bimbo pensò che fosse stanco. Lo poggiò sul davanzale, dove si vedevano il sole e le nubi, e cominciò a costruirgli una gabbietta. Era un bimbo industrioso: aveva pezzo di legno leggero, e viti e chiodi e bulloni. Aveva anche un martello. Lavorò per ore, con gran diligenza.
Quando la gabbietta fu finita, il sole era calato e l’uccello aveva chiuso gli occhi. Il bimbo ancora si chiede in che cosa ha sbagliato.

tratto da La filosofia in trentadue favole, di Ermanno Bencivenga





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